Tutto è cominciato quarant’anni fa a Massagno, in quella palazzina di via al Ponte 13 con l’intonaco grigio e le tapparelle verdi, cinque gradini che conducevano verso un ingresso piccolo e tetro (mai amato, almeno all’inizio, da Arturo Licenziati), la moquette ovunque (anche sulle pareti della sala riunioni), gli uffici con i soffitti dai colori tutti diversi, secondo una logica difficile da decifrare, e i gabinetti alla turca. Lì nell’agosto 1985 era la sede della vecchia IBSA, fondata nel 1945 da un gruppo di biochimici svizzeri, e da lì bisognava ricominciare con la nuova gestione di Licenziati.
Il senso di squadra e l’importanza del gruppo
Articolo redatto da Paolo Rossi Castelli
L'INIZIO

In verità IBSA, nell’85, era vicina al fallimento, con poche decine di dipendenti e un fatturato modesto, circa 6 milioni di franchi, che derivava solo da due “fonti”: la produzione di antibiotici, ormai quasi esaurita, e un farmaco per la cura dell’ulcera, l’Urogastrone. «Questo medicinale, destinato esclusivamente al Giappone, era l'unico che offriva un certo margine di profitto - ricorda l’attuale Vicepresidente di IBSA Antonio Melli - ma per il resto la situazione appariva disastrosa».
I guai di IBSA avevano preso il via circa 6 anni prima, nel 1979, quando era iniziato il crollo delle esportazioni di antibiotici, un mercato che rappresentava circa il 70% delle vendite. «In quel periodo, tra la fine degli anni ‘70 e il 1985, - continua Melli - IBSA non fu in grado di sostituire con nuovi prodotti una flessione dei ricavi così importante. Vennero immessi nuovi capitali, che tuttavia si esaurirono presto a causa della situazione economicamente deficitaria dell’azienda. Erano tempi ben diversi, rispetto alla realtà che conosciamo oggi. Me li ricordo bene».
Ma perché Licenziati, allora cinquantenne, ha deciso di affrontare un’avventura così a rischio, investendo e ipotecando tutti i suoi beni, per acquisire un’azienda ormai al capolinea? Lui era un dirigente di successo (guidava Inpharzam, filiale svizzera di Zambon, dopo aver aperto altre sedi europee del gruppo italiano), con un lavoro sicuro e – crediamo – con un buon pacchetto retributivo. Forse, i successi accumulati fino ad allora e l’amore per il rischio (calcolato…) lo convinsero a prendere in considerazione una nuova strada, più “pericolosa” ma sicuramente più eccitante. «Un suo conoscente gli aveva riferito di IBSA, una piccola società che si diceva fosse in vendita - racconta Melli. - I vecchi proprietari avevano probabilmente esaurito le risorse per il rilancio dell’azienda e quindi erano arrivati alla decisione di cedere la loro impresa. Licenziati ha subito colto questa sfida, per mostrare, credo, di cosa fosse capace, anche come imprenditore. Grazie alla sua esperienza in Inpharzam, aveva una grande credibilità presso il sistema bancario svizzero, e questo gli ha permesso di ottenere il supporto necessario per rilanciare IBSA. Ma, certo, ha dovuto mettere in gioco tutto quello che aveva accumulato fino a quel momento».
Così è iniziata la nuova vita di Licenziati, e anche quella di IBSA, nell’edificio di Massagno che ospitava gli uffici e la fabbrica. Per prima cosa Licenziati ha chiamato gli imbianchini e ha fatto ridipingere tutto di bianco, all’interno... Poi ha reso più accogliente l’ingresso. E naturalmente ha subito “estratto” le sue migliori energie, insieme ai pochi collaboratori di allora, per mettere in sicurezza i conti aziendali: operazione tutt’altro che facile.
LA VOGLIA DI FARE

«IBSA non aveva grandi dimensioni, ma possedeva comunque un laboratorio e una linea produttiva - ricorda Michela Lazzaroni, all’epoca responsabile dell’ufficio acquisti. - Soprattutto c’era una gran voglia di costruire qualcosa. Licenziati era sempre presente, attento a ciascuno di noi. Sapeva ascoltare, e rispondeva con estrema chiarezza e con un senso di rispetto (a volte, se necessario, anche con una certa severità). Era una figura paterna, molto stimata. Ci incontravamo, soprattutto la mattina presto, davanti al fax (l’unico dell’azienda) nella segreteria, accanto al suo ufficio. Guardavamo insieme la corrispondenza che era arrivata durante la notte (qualcuno forse pregava di trovare tra i vari messaggi qualche buon ordine), e la dividevamo, a seconda dei vari destinatari. Molto spesso Licenziati si presentava con i caffè, e insieme parlavamo di quei documenti: era un momento di scambio e confronto, in un clima “caldo”, familiare».
Aggiungono Rosalba Brogna e Maria Teresa Gilardoni, entrate in “fabbrica” qualche tempo dopo: «Tre erano i reparti principali: liquidi, polveri e confezionamento. Tutto molto manuale, con l’aiuto di macchine semi-automatiche. Si pesavano a mano i componenti, si preparavano le creme nei miscelatori, e si riempivano i tubetti uno per uno. Poi questi prodotti andavano inseriti nelle scatole, con i foglietti illustrativi. Per fare un lotto di pomata ci voleva una settimana intera».
INNOVARE E INVESTIRE

La battaglia per la sopravvivenza di IBSA è passata attraverso l’Urogastrone, appunto, ma anche i colliri realizzati per conto terzi, piccole produzioni compresa l’acqua distillata per un laboratorio di veterinaria di Lugano, pomate e tutto quello che poteva fornire un sostegno finanziario all’azienda. Come si dice: non si scartava niente, bastava che portasse un po’ di margini. «Nel 1988 e 1990 - spiega Melli - siamo riusciti a stringere un accordo per il confezionamento di un antibiotico, prodotto da una ditta italiana e destinato agli Stati Uniti. Già all’epoca la Svizzera era considerata una nazione leader in campo farmaceutico, tanto che i requisiti regolatori delle autorità USA, per le aziende elvetiche, erano molto meno stringenti rispetto a quelli richiesti ad altri Paesi. Il confezionamento di questo prodotto avveniva negli appositi reparti, ma dopo l’orario normale di lavoro, verso le 16:30, arrivavano i rinforzi, a partire da Licenziati, la signora Isabella, impiegati vari, chiamati a riempire con una vecchia ma efficace “contacapsule King” i flaconi con 100 capsule ognuno. Quel business si è rivelato essenziale per garantire il futuro di IBSA nei primi periodi difficili. Ci ha permesso di andare avanti e di cominciare a investire in Ricerca e Sviluppo, nuovi impianti di produzione e attività commerciali».
Azienda in crescita, ma impostazione sempre familiare. Licenziati conosceva tutti per nome. A Natale passava a consegnare di persona le buste con la tredicesima, a Pasqua brindava nei reparti. Anche per la Festa della Donna portava le mimose. «Aveva creato un ambiente - racconta Rosalba Brogna - dove tutti si sentivano parte di qualcosa. Eravamo un piccolo gruppo che faceva tutto: dalle capsule alle pomate, dalla pesatura alla confezione. E non c’erano molte procedure scritte, si imparava sul campo, spesso a memoria, oppure si annotava su un block-notes... Lavoravamo come se fosse casa nostra. Attente agli sprechi e ai dettagli. Quando abbiamo dovuto lasciare la sede di Massagno, è stato come salutare una parte della nostra vita».
Licenziati sapeva bene, però, che era assolutamente necessario innovare e investire in nuovi farmaci. Dopo una visita in Giappone, ha avuto l’intuizione di sviluppare il Flector Patch, basandosi su un supporto transdermico, il cerotto medicato, molto diffuso in Estremo Oriente per trattamenti estetici, ma non ancora per i farmaci. «Come principio attivo - dice Melli - abbiamo utilizzato il diclofenac-epolamina, un principio attivo brevettato da IBSA che aveva la particolarità di essere sia idrosolubile sia liposolubile, dunque ideale per un’applicazione topica attraverso il cerotto. Questo è stato il punto di svolta per IBSA».
«La nostra strategia - spiega Melli - è stata quella di sviluppare farmaci e sistemi di rilascio innovativi partendo da principi attivi noti e non coperti da brevetti (farmaci nella forma migliore). Abbiamo investito molto nelle persone, in Ricerca e Sviluppo, in stabilimenti di produzione e in promozione. All’inizio eravamo concentrati solo sul mercato svizzero: non avevamo filiali all’estero, poiché non avevamo la capacità finanziaria necessaria... Poi, piano piano, abbiamo cominciato a dare in licenza i nostri prodotti ad aziende, anche multinazionali, che erano presenti in diversi Paesi con una rete capillare di distribuzione. Il passo ulteriore è stata l’acquisizione diretta, da parte nostra, di aziende all’estero (spesso ex distributori) e la creazione di filiali commerciali in Europa, Cina e Stati Uniti».
Anche il numero dei collaboratori è cresciuto proporzionalmente al business, ma senza perdere di vista la visione iniziale. «Nonostante il suo ruolo di vertice, Licenziati era uno di noi - racconta Maria Teresa Gilardoni. - Diceva sempre: “Una matita sola si spezza. Tante matite insieme difficilmente si rompono. E noi siamo tutte queste matite”. Ha trasmesso il senso di squadra, l’importanza del gruppo». Uno stile che è rimasto nel cuore: «Il giorno in cui è nato mio figlio - ricorda Michela Lazzaroni - il dottor Licenziati è venuto a trovarmi in ospedale con un enorme mazzo di rose. Non potrò mai dimenticarlo».

Uomo romantico, ma anche imprenditore super-determinato. «Quando l’ho incontrato la prima volta, durante il mio colloquio di assunzione - ricorda Tiziano Fossati, attuale Head of Products Development di IBSA - Licenziati mi ha detto: “Oggi produciamo un milione di unità, voglio raddoppiarle in pochi anni. E ce la farò”. Aveva ragione. Oggi non siamo a due milioni, ma a più di venti milioni!». Fossati arrivava da Novartis, dove ognuno, in una sorta di ingranaggio perfetto, era chiamato a occuparsi di un singolo pezzo del lavoro. «In IBSA, invece - racconta - l’interazione con tutti i dipartimenti appariva continua e indispensabile. Le regole non erano rigidamente definite, serviva spirito imprenditoriale». Certo, a volte, bisognava fare i conti anche con qualche piccolo inconveniente... «Quando ho cominciato a lavorare in azienda - ricorda sorridendo Fossati - ho scoperto che il mio primo ufficio si trovava all’interno della sala in cui erano stati sistemati anche i server aziendali! Troppo rumore per lavorare... Così ho cercato e trovato un’altra scrivania. Nulla era organizzato alla perfezione, in IBSA, ma questa flessibilità diventava anche un punto di forza: era necessario adattarsi e agire in modo autonomo».
Questa flessibilità è emersa anche in uno dei momenti più difficili per l’azienda: l’incendio che nel 1999 ha distrutto la fabbrica annessa alla palazzina di Massagno. «Io ero a casa in maternità - ricorda Michela Lazzaroni - e dalle finestre vedevo il fuoco, perché abitavo proprio di fronte alla nostra azienda (in linea d’aria), su un’altra collina di Lugano. Non si è fatto male nessuno, per fortuna, ma le fiamme sono andate avanti a lungo, perché lo stabilimento aveva solette parzialmente di legno, e l’incendio è partito dal magazzino, pieno di carta e di tanti altri prodotti che bruciavano facilmente. Alla fine, non c’era più nulla: laboratori, materie prime, tutto da ricomprare e ricostruire. Ma è stata anche la svolta: il trasferimento a Collina d’Oro, la costruzione di nuovi stabilimenti, la riorganizzazione... È lì che IBSA ha cominciato davvero a crescere».