Nella vita l’importante è essere semplici

Intervista di Paolo Rossi Castelli ad Arturo Licenziati

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Tutti dicono cose molto belle di Lei...

Non gli dia retta!

...Raccontano della Sua idea di azienda come una grande famiglia, e del Suo modo di “fare impresa” molto diverso da quello della maggior parte degli altri industriali...

È questione di abitudine: se uno è un semplice, come me, vede le cose in modo semplice e comprensibile per tutti, e quindi le fa...

Molti ricordano, per esempio, che quando eravate nella vecchia sede di IBSA Lei andava spesso negli uffici, conosceva le persone, beveva un caffè con loro, si informava sui problemi e cercava di risolverli...

Ognuno è fatto in un certo modo. Io, come dicevo, sono un semplice, e faccio le cose semplici. 
Se una persona ha bisogno di aiuto, glielo do. Sulla mia tomba scriveranno: “Non aveva rimorsi. Forse qualche rimpianto”.


In tante altre aziende – come si sa – non è così, e a volte i dirigenti non conoscono nemmeno i nomi dei collaboratori, non sanno realmente quale sia il loro ruolo. Pensano soprattutto a fare bella figura durante i consigli di amministrazione.

Che senso ha?

Infatti... Le aziende gestite così, in modo impersonale, spesso vanno incontro a problemi. Bisogna avere una forte sensibilità, comunque, per scegliere una strada diversa.

Io non ho particolare sensibilità. È fisiologico, come lo sono altre attività quotidiane, anche piccole... Farsi la barba e la doccia tutte le mattine: è fisiologico... Non riesco nemmeno a concepire quello che mi sta dicendo (ride). Non è nel mio DNA. Siamo su due mondi diversi. Qui in IBSA, quando si timbra per la presenza, si può leggere la scritta: “In questa azienda si pretende il rispetto a tutti i livelli”

Davvero c’è questa scritta?

Sì, vada giù e legga. Non sono ammessi soprusi, non sono ammessi abusi di potere. Punto. Ogni persona che lavora qui deve rispettare tutti. Lei rispetta me, e io rispetto Lei. Qui la porta è sempre aperta. Per quanto riguarda me, l’unico “abuso” che mi permetto è quello di leggere il Corriere della Sera in ufficio (agli altri non è consentito...).

Da tempo mi chiedo perché Lei, che era un importante dirigente della Zambon, non abbia cercato di passare in un’altra grande azienda farmaceutica, invece di rischiare il tutto e per tutto comprando IBSA, che nel 1985 era sull’orlo del fallimento...

Io avevo un grande rispetto per il mio presidente, Alberto Zambon, che mi lasciava completamente libero. Per tanti anni ho potuto fare quello che volevo. Però a un certo momento l’organizzazione del lavoro è cambiata e non mi sono più trovato a mio agio. Allora ho detto: “Caro presidente, l’azienda è sua, la vita è mia. Lei faccia della sua azienda quello che ritiene giusto, e io farò altrettanto della mia vita. Più semplice di così, si muore...”

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Arturo Licenziati e Antonio Melli con due collaboratrici IBSA, Angela Milesi e Irma Foglia

Sì, ma in questo modo Lei ha messo a repentaglio tutto quello (intendo i beni economici) che aveva accumulato fino ad allora.

Perché mi sembrava il momento adatto.

Aveva cinquant’anni esatti. Non è facile cambiare completamente la propria vita in quella fascia di età.

Io sono fatto in un modo diverso, più semplice, gliel’ho detto... Sono un animale preistorico.

Lei ha preso tutti i soldi che aveva...

...E me li sono giocati. Ognuno è matto come gli pare! Ho fatto un aumento di capitale al 50% per rilanciare IBSA, che in quel momento produceva pochissimo: un farmaco chiamato Urogastrone e antibiotici generici. L’Urogastrone era un estratto di urina di donne gravide, che aveva un’attività anti-ulcerosa, perché faceva diminuire la motilità gastrica. Questo passava il convento...

C’è voluta una certa incoscienza...

Io lavoro nell’industria farmaceutica da settant’anni (adesso ne ho novanta). Una gran parte delle aziende della Zambon all’estero le avevo aperte io. Ho imparato il mestiere.

IBSA, però, aveva una quarantina di dipendenti, quando Lei l’ha acquisita... Quindi quaranta stipendi da pagare ogni mese.

Sì, sono entrato in una situazione abbastanza pericolosa. La prima cosa che ho fatto è stata chiedere se c’era la possibilità di licenziare la metà delle persone che lavoravano lì. E da quel momento siamo arrivati a oltre 2.500 persone e a quasi un miliardo di fatturato!

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Un meeting IBSA negli anni '90

Ma li ha licenziati veramente quei primi collaboratori?

Non ho avuto tempo...

Quanto avete impiegato per risollevare l’azienda?

Siamo ripartiti da subito, praticamente.

Ma come avete fatto?

Abbiamo lavorato, cercato di ridurre i costi e di inventare nuovi prodotti.

Avevate un reparto di ricerca e sviluppo?

(Ride) Ero io... La prima mossa è stata quella di portare in Italia i cosiddetti “plaster”, cioè la versione moderna dei cataplasmi (gli impacchi di sostanze naturali o medicamentose, applicati direttamente sulla pelle, che preparavano le nostre mamme e nonne). In Giappone erano molto bravi a utilizzarli, in una versione aggiornata (un tessuto non-tessuto che poteva essere imbibito di princìpi attivi): me ne sono reso conto quando sono andato in Estremo Oriente, per seguire le vendite dell’Urogastrone, che aveva come principale mercato proprio il Giappone. Così ho deciso di abbinare il moderno cataplasma a una sostanza antinfiammatoria nota: il diclofenac, per combattere i dolori del ginocchio, della schiena o anche i dolori artrosici. Ha funzionato, ed è nato il Flector.

Com’era l’iter per l’approvazione dei farmaci, da parte delle autorità sanitarie?

Molto diverso da quello di oggi ma, in ogni caso, anche quarant’anni fa bisognava preparare un complesso dossier di registrazione, all’interno del quale era necessario indicare le caratteristiche tecniche del prodotto e il loro effetto. Nel caso del Flector, invece di ricorrere a un gel, o a una crema da strofinare sulla gamba (come accadeva di solito), abbiamo dimostrato che bastava applicare il nostro cerotto nel punto dolente, per ottenere un’attività antinfiammatoria.

Quindi, Lei ha avuto l’idea e poi l’avete sviluppata fra di voi...

C’erano pochissime persone nella IBSA di allora. Abbiamo utilizzato anche centri esterni, per i test. Sono state eseguite molte prove, in laboratorio e in ospedale, e si è visto che il farmaco aveva un ottimo effetto. Così abbiamo cominciato a produrlo. O, meglio, lo facevamo produrre in Giappone.

Questo avrà avuto un costo, che si sommava a quelli generali per la gestione dell’azienda...

Sì, certo. Se mi chiede quanti miei soldi personali ho investito, glielo dico subito: avevo 1,2 milioni di franchi, ottenuti ipotecando la casa e raccogliendo tutti i miei risparmi, più un debito verso IBSA di 2,4 milioni (per eseguire l’aumento di capitale), che liberavo a seconda delle necessità, facendomi prestare i soldi dalle banche. È stata una questione di fortuna... Se Lei ha fortuna, ci azzecca, come quando va al casinò: se dice rosso ed esce rosso, ha vinto; se esce nero, ha perso.

Non basta solo questo... Per andare avanti e realizzare i propri progetti, soprattutto quelli più arditi, occorrono anche costanza, coraggio e cervello, come Lei ha detto in varie occasioni.

Sì, ma ci vuole fortuna! Se non c’è quella, se non arriva, si fallisce.

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Lo storico headquarters di IBSA a Massagno negli anni '80

Qual è stato il Suo colpo di fortuna?

Sono riuscito a portare a casa il primo prodotto.

In realtà è stato il frutto di una Sua bella intuizione...

Sì, è vero. Però poi ho lavorato 12 ore al giorno, per lungo tempo, con grande intensità...

E quando avete visto che il Flector funzionava...

Abbiamo cominciato a mettere in cantiere anche altri farmaci. Certo, il nostro centro di ricerche continuava a essere molto casalingo...

Come Le venivano le nuove idee? Dove trovava l’ispirazione, non avendo ancora un team fisso di ricercatori all’interno dell’azienda?

La necessità fa virtù. È come avere una faretra, con dentro una sola freccia. Si comincia a lanciare quell’unica freccia. Se arriva a destinazione, si può arricchire la faretra. Anzi, bisogna avere altre frecce. Questa sfida non mi spaventava. Non era stata l’unica... Quando avevo 28 anni, per esempio, Zambon mi aveva spedito in Belgio per aprire un nuovo stabilimento. Ero solo. Mi hanno preso e buttato lassù, e mi hanno detto: arrangiati! E sono sopravvissuto... Insomma, quando ho rilevato IBSA ero abbastanza abituato a queste avventure.

Cosa ricorda dei suoi primissimi giorni nella sede “storica” di Massagno?

Il contabile se n’era andato. La centralinista, che aveva 70 anni, o qualcosa di simile, pure. Le pareti degli uffici erano tutte colorate... Un soffitto era rosso, un altro nero, un altro ancora giallo, in modo caotico. E poi c’erano i gabinetti alla turca.

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Mi hanno detto che non Le piaceva neppure la reception...

L’ho cambiata tutta, pezzo per pezzo!

In effetti si nota nelle vostre attuali sedi, anche in quelle più periferiche, il gusto per il bello, per l’architettura...

Le cose, belle o brutte, costano uguale. Tanto vale farle belle! È soltanto una questione di gusto.

L’edificio cosmos è particolarmente elegante...

Sì, sembra un albergo a 5 stelle.

La ricerca della bellezza ha sempre accompagnato la Sua vita (anche quella privata)?

Certo! Per me è fisiologico. Non posso fare una cosa brutta. Mi rifiuto.

Bisogna averla dentro, però, questa “necessità” della bellezza...

Quando sono arrivato in Belgio, come Le raccontavo, ero solo. Vedevo quei prati enormi, gialli, rossi, verdi... Per i miei primi clienti ho deciso di far preparare un’edizione speciale di Pinocchio, illustrata, di grande formato, in francese e in fiammingo. Una scelta forse inconsueta per un’azienda farmaceutica, ma era bella, appunto, e mi ha permesso di farmi conoscere in modo diverso.

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Che rapporto ha con il denaro?

Il denaro mi serve, ma non vivo per il denaro. Ho bisogno del denaro, per fare, ma vado in giro con una Panda.

Come mai?

Quando avevo quarant’anni, o cinquanta, possedevo una Mercedes (una bellissima macchina) e avevo comprato anche una Maserati. Ma a novant’anni non mi importa. Anzi, mi vergognerei... Per la verità, oltre alla Panda ho anche una 500 Abarth. Adopero la Panda in inverno, perché è una 4x4 e sta sempre in piedi, anche con la neve e con il ghiaccio. Con la 500, invece, vado da marzo a settembre. Guidare quella macchina mi diverte, in autostrada, dietro alle Porsche... I soldi che possiedo li reinvesto sempre nell’azienda. IBSA non ha mai distribuito utili agli azionisti.

Anche in questo caso Lei va contro corrente. Sono moltissimi, invece, i casi di grandi aziende che vengono spremute come limoni solo per pagare un alto dividendo.

Incomprensibile per me... Come si fa? Investiamo tanti soldi nella nostra azienda: il cosmos è costato 140 milioni.

Evidentemente Lei crede molto nei Suoi progetti...

È quello che sento. Per citarne un altro, ad Avellino ho fondato Altergon, un’azienda in cui lavorano 350 persone. Prima non c’era niente. Adesso quell’azienda produce acido ialuronico che viene venduto in molti Paesi. È una grande soddisfazione personale, che nessuno mi può togliere.

Com’è la Sua vita sociale?

Se è possibile non mi faccio mai vedere. Meno appaio, e più mi diverto.